Dal 25 Febbraio all’11 Marzo 2018 espongono

Acciarri Daniela, Collezione La Spadarina e Gavana Simone.

RECENSIONE

Forse non tutti i piacentini se ne sono accorti, ma la galleria d’arte “La Spadarina” di Rosario Scrivano ha una dimensione nazionale. E forse qualcosa in più per gli artisti che coinvolge e per l’intorno che il titolare ha negli anni creato. Fino all’11 marzo esporranno allora l’ultima loro produzione due personalità assai interessanti, l’artista Daniela Acciarri di Ascoli Piceno ed il fotografo Simone Gavana di Milano.

Capiterà poche volte a ciascuno di noi piacentini di vedere ed implicitamente di apprezzare opere singolarissime come quelle qui riunite di Daniela Acciarri. Perché questa enfasi in questo incipit? Semplice: l’arte di Acciarri è originale, non esageriamo se diciamo stupenda e – soprattutto – nasce da un assemblaggio materico oggi desueto, un tempo invece fra i più praticati in campo creativo. Si tratta della pittura e degli smalti a fuoco su legno e lastra di metallo, tecnica antichissima che raggiunse l’apogeo nella cosiddetta “Scuola di Limoges” nei secoli cruciali fra XII e XVI secolo. Ma Acciarri – come ogni ottimo artista dovrebbe fare – va oltre: nelle sue composizioni troviamo anche oro zecchino, argento e colori ad olio per integrare e dare quella sensazione di ricchezza e di completezza che ogni manufatto di questo livello deve contenere. 

Qui alla “Spadarina” espone opere allora atipiche ed un poco démodé per la sensibilità contemporanea abituata o all’assoluta eccentricità o alla raffinatezza estetica spesso fine a sé stessa o alla banale levigatezza formale. Dimostrando una prodigiosa padronanza tecnica maturata in decenni di attività ad alti livelli, Acciarri rivisita tutta la storia dell’iconografia occidentale. I suoi soggetti sono in parte tradizionali, in parte innovativi e sempre e comunque proiettati alla scoperta di una nuova espressività, un nuovo codice di valori, non solo visi e simbolici, ma anche tattili e materici. Le sue opere non hanno e non ricercano un equilibrio canonico, non puntano ad un’astratta razionalità, vivono anzi del proprio organicismo, si esaltano in una declinazione all’apparenza amorfa invero avvolgente. E’ proprio questa misteriosa presenza, questa materia per nulla ossessiva però dirompente nella sua evidente plasticità non più e non solo straniata e straniante, ma in grado di comporre modernissimi puzzle, di forgiare composizioni organicamente vitalissime nella sua folle disarmonia, nella sua cangiante mutevolezza. 

Le opere esposte sono tratte dalle serie “Origo” ed “Oltre l’orizzonte” e da altre meno note mentre non ci sono né piatti in terracotta né – dove sempre eccelle l’artista ascolana – esempi di arte orafa.

Il fotografo Simone Gavana presenta qui scatti in bianco e nero di piccolo formato che costituiscono una ricerca tematica assai significativa nel suo portfolio professionale. Si tratta della serie “Ho visto il mare e mi sono innamorato” dove ricerca invece la poesia, il senso del nulla e dell’assoluto e, parallelamente, ci dice che la grande fotografia è spesso elegiaca. In questa serie di scatti la solitudine del contesto accentua la dimensione crepuscolare non arrivando però al pathos. Astrae da tutto e da tutti, preferisce la cultura anzi la scultura del silenzio perché ci immette in un contesto quasi surreale per la mancanza di persone. Però riesce anche a definire, quantificare e forse scardinare il tempo quotidiano della vita per introdurci nel tempo magico della percezione dove tutto è lento, rarefatto, immortale.

Analizzando spiagge e litorali marini scopre un’altra dimensione della nostra vita, a suo modo ci fa trasalire non tanto per i contenuti, più che altro per i non-contenuti. Sono scatti senza tempo, dei classici, universali quasi, lontani dal tempo e dalla storia, vicinissimi solo alla nostra realtà interiore.

L’esperienza di questa serie di foto dedicate al mare è che non sapremo mai se sia prevalsa l’aura del contesto o l’abilità del fotografo. O se le fotografie nascano dalla sottile dialettica fra questi due piani e siano il punto di incontro fra una pressione interiore ed una fascinazione visiva per effetto di un contesto scarnificato e ridotto all’essenzialità.

Gavana dimostra qui come la foto ancora contenga e/o favorisca istanze conoscitive, sia cioè in grado di ridefinire un ambiente di solito vivace e colorato per eccellenza perché legato o alle vacanze o al ricordo delle vacanze. Gavana ribadisce allora come la foto abbia ancora grande dignità ormai in prossimità del terzo decennio del terzo millennio. L’incisiva frequentazione della realtà diventa allora un modo per quantificare la nostra impalpabile serenità. L’autore sembra dirci che l’essenza delle fotografie è quasi anteriore alla pittura essendone, al contempo, le stesse foto quintessenza operativa e dinamica insieme.                                                                                                                                                                

             Fabio Bianchi